Dopo un periodo di assenza di corse fa piacere un racconto del nostro Augusto. Per sperare in un nuovo inizio da qui a breve.
Brutto periodo quello dei mesi passati.
Ovvio, non solo per le gare, ma certamente pure per quelle.
Poi ci sono le belle sorprese, come per la Trans d’Havet che si tiene sulle “piccole Dolomiti” in provincia di Vicenza e di Trento, che quest’anno è stata cancellata ufficialmente, ma che ha ripensato la competizione con uno spirito che torna ai tempi originari del trail.
Ovvero: autogestione, niente ristori, nessun orario di partenza ma solo una registrazione di partenza dalle sei di mattina in poi in un bar a Recoaro Terme, timbri di passaggio nei rifugi del percorso, timbro finale nel negozio di articoli sportivi a Recoaro.
Ciascuno parte calcolando i propri tempi, nessuna segnalazione sul tracciato ma solo la possibilità di scaricare una traccia sul GPS (che non uso mai) oppure stampare un foglietto con le indicazioni principali. E che ho tenuto in mano per tutto il tempo.
Cosa che non ha impedito di perdersi due volte.
Insomma, 47 km totali (con le deviazioni involontarie) e 2800 m di dislivello positivo. Prima parte assassina con 2400 m D+ nei primi 23 km, seconda parte a correre per recuperare qualcosa sul tempo finale.
Ah sì: anche questa volta con Pietro che a 15 anni e in 9 ore risulta il finisher più giovane della storia della corsa. E che si è volato gli ultimi 7 km in discesa in 25 minuti scarsi.
Partiamo da casa venerdì e arriviamo in loco verso le sette, pizza e a dormire nel parcheggio delle terme, Pietro sdraiato sui sedili posteriori e io su quello anteriore, portiere aperte tutta la notte e una piacevole frescura fino al risveglio prima delle cinque a vedere l’alba e il cielo che si rischiara.
Alle 6 al bar siamo in una decina, io e Pietro carichiamo l’acqua e partiamo da soli.
Nei primi 7 km saliamo di 1000 m, prima su sterrate semplici, poi su prati e infine su sentiero. Ci perdiamo una prima volta per una mancata segnalazione sul roadbook, 20 minuti buttati via ma nessun problema serio.
Arriviamo al primo rifugio, acqua e si riparte per altri 7 km verso il secondo rifugio ai 2200 m di quota. Il fatto è che qui c’è una salita su strapiombi e rocce, con pendenze che sfiorano la legalità e che devono essere affrontate per forza usando le mani. Sono tre quarti d’ora decisamente duri, ma i panorami ripagano.
Su questo versante non c’è vegetazione, sole a picco e sudore che diventa goccioloni, ma il tratto è davvero bello e la suggestione delle continue selle che si susseguono spinge a tenere alto il ritmo.
Arriviamo al secondo ristoro e da lì vediamo addirittura il terzo, quindi timbriamo e ripartiamo senza bere.
Qui ci perdiamo una seconda volta a causa di un sentiero deviato che davvero non ha nessuna indicazione. Poco male perché ci orientiamo con qualche riferimento e attraversando i pratoni ci ricongiungiamo con la traccia corretta, arrivando al terzo rifugio dove compriamo birra e acqua, e Pietro finalmente (sono le dieci e mezza) mangia qualcosa.
Non ha fame, ma gli consiglio di farlo dato che “sacco vuoto vuol dire sacco buco”, ovvero quando hai fame è già troppo tardi e anche se mangi il danno è fatto.
Adesso il versante è verde di vegetazione, le stesse montagne (siamo sempre appena sotto ai 2000 m di quota) cambiano completamente e si fanno meno severe.
Il rifugio successivo è a 10 km, corriamo con un po’ di gente ma presto li stacchiamo dato che riusciamo a far girare bene le gambe camminando solo sulle salite.
Arriviamo a una malga che avrebbe dovuto avere acqua, ma niente. Ci fermiamo e diamo fondo alle borracce appena prima dell’ultima salita impegnativa, circa 120 m di dislivello positivo in poco meno di 1 km.
In cima come speravo c’è vento, ci asciuga il sudore e arriviamo all’ultimo rifugio, 1700 m di quota.
Entriamo e prendiamo una lemonsoda e una birra, mangiando un po’ di frutta secca.
Ci attardiamo seduti a una panca ma quando ripartiamo si aprono le chiuse e inizia a piovere intensamente mentre siamo nel bosco.
La traccia si fa confusa e la mia mappa su carta è ormai inservibile; a un certo punto ci separiamo per seguire due sentieri diversi, ma non ci fidiamo di procedere a sensazione e quindi decidiamo di tornare un po’ indietro per trovare due ragazze con cui abbiamo fatto alcuni tratti. Arrivano dopo pochi minuti e restiamo con loro che conoscono bene la zona.
In 20 minuti la pioggia cessa e inizia la discesa: il clima è fresco e noi idem, quindi riusciamo a correre senza difficoltà nei boschi, il fondo è agevole e maciniamo terreno senza molti sforzi.
Arriviamo a pochi km dall’arrivo e vedo da un po’ Pietro che frigge: gli dico che procederemo come ci sentiamo. Prendiamo il nostro passo e acceleriamo man mano su fondo prima sassoso e poi sempre più rollante.
Ormai siamo lanciati sui tornanti, credo che sia qualcosa che viene chiamato “second wind”, un ritorno di energie che credevi di non avere più, o forse la motivazione che ci sprona a dare tutto e finalmente tagliare un traguardo solo virtuale, ma decisamente voluto.
Ovviamente Pietro star della giornata, quelli che abbiamo incontrato a chiedergli se gli stava piacendo quello che stava facendo. Una soddisfazione immensa nel sentirgli dire che correre in montagna lo ripagava più di qualsiasi sforzo.
E per l’anno prossimo un obiettivo ben definito.