Coccodrilli, ovvero il Casto Trail 2019

Si può essere felici? Intendo qui e ora.
Non un metro più in là o più in qua, e nemmeno tra cinque minuti. Ma qui e ora.
Erano ormai tre settimane che gustavo la caramella, attento a non morderla per non sentire troppo presto il sapore del ripieno, buono e fresco come una mela croccante.
E mi immaginavo i momenti del prima e del dopo, ben sapendo che il durante sarebbe stato troppo acceso dallo sforzo e dalle sensazioni da vivere in diretta sulla pelle.
Correre per ore con mio figlio, su qualcosa di più lungo di una maratona.
Lui, a 14 anni. Che ogni volta mi dice “in discesa corro perché mi piace, in salita corro perché voglio arrivare in cima” e che quindi ha già capito cose che spesso io mi dimentico.
Siamo arrivati in sei ore e qualche minuto. Siamo arrivati e ci siamo sorrisi.
E allora qui.
Ora.
Sono felice. Augusto

Risuonano ancora le ultime note della canzone. Poi il CD finisce e la voce di Samuele Bersani con il brano “Coccodrilli” si chiude.
L’auto si ferma e sono di nuovo ad Andorno Micca per il Casto trail.
Solo che questa volta i chilometri sono 44 e il dislivello positivo è di 2000 metri.
Se l’anno scorso qualcuno me lo avesse predetto, non ci avrei creduto; invece eccomi davvero sotto l’occhio vigile dei monti del biellese, con i loro splendenti colori autunnali.
Nei giorni precedenti avevo tanto atteso questo momento. Non sapevo cosa avrei provato.
Mi sentivo lontano, lontano da ogni realtà a cui fossi abituato. E se per una tale emozione bastano 3 ore di auto forse ciò che provavo era la felicità di trovarmi alla festa del trail. Al ritrovo.
E per la seconda volta con mio padre: senza di lui e di Mau (a cui per ringraziarlo dovrei sacrificare il capretto grasso come facevano gli antichi) avrei ora 44 chilometri in meno nelle gambe. E 44 milioni di emozioni in meno nella testa.
Il pomeriggio passa leggero mentre seguo mio padre in giro per la palestra che ci ospiterà per la notte a chiacchierare con altri trailers (anzi: ultratrailers) e infine si arriva fino a cena. La mitica cena pre Casto trail.
E niente, si mangia di brutto brutto brutto neh!
Infine bicchierino di Ratafià e l’ultima attesa prima della notte. È in questo lasso di tempo che ci telefona mia madre, mia madre che pensa che devo fare 21 chilometri e non 44: glielo avremmo fatto sapere il giorno dopo per non farla preoccupare (anche se questo diabolico piano mostra delle falle).
Eh vabbè. Glielo diremo domani.
Il suddetto domani arriva in fretta, rapitore della notte: alle 5:30 in piedi, partenza alle 7.
Mentre si avvicina il fatidico momento, mi preparo alla corsa. E quel misto di paura, felicità e follia si affaccia di nuovo sul mio cuore, bussa un attimo e poi, prima di poter rispondere un “chi è?” si tuffa dentro e con questo grumo caldo di magiche emozioni mi avvicino al gigantesco gonfiabile “Scarpa” di partenza. E di arrivo, nel migliore dei casi.
In breve, sotto lo splendido cielo che ci accoglie a inizio gara, lo speaker comincia il conto alla rovescia.
Guardo il cielo, le mie scarpe e tocco il terreno.
Stringo la mano a mio padre che mi sorride ”Buona fortuna”. E bona lé: si parte.
I primi passi nella bolgia generale dentro Andorno Micca sono tra le stradine e poi più su, più su, fino ai monti che ci attendevano nell’oro che li ricopre in certi mesi autunnali.
Io e mio padre, quando comincia la salita, possiamo parlare poco e la mente spazia un po’ a caso. E come sempre si posa su canzoni.
E così, con improponibili playlist offerte dai miei neuroni più bevuti, mi ritrovo sempre più su, sul primo picco con la croce, dal quale si vede tutta la pianura giù, lontana miliardi di chilometri.
Da lì comincia la prima discesa, l’occasione per rifiatare per alcuni minuti e infine si ritorna in basso.
Improvvisamente, durante un’ennesima discesa, si sente il suono di un campanaccio in lontananza. Finita la discesa ecco il motivo del rumore: il ristoro abusivo.
Fermi a mangiare incontriamo anche Leo, amico di mio padre della corriera veneta, di fianco alla carne sulla griglia offerta dal ristoro “abusivo”.
Da lì in poi comincia il vero divertimento, il vero Casto trail, confine tra le Alpi e la pianura, che spesso si lancia in alto fino a poterle vedere le cime innevate a nord.
Con queste cornici faccio il grande circolo dal 14esimo al 30esimo chilometro, 16 chilometri di grande sforzo ma spettacolari, nelle ore più luminose della giornata, nel momento di massima tersitudine e con lunghi pezzi corribili.
Con l’arrivo al 30esimo chilometro (nel frattempo mio padre confessa a mia madre che sto facendo 44 chilometri) spingo un po’ di più: Andorno Micca si avvicina e le gambe non si sono ancora licenziate, suicidate o fuggite per conto loro. Anche questi sono lunghi pezzi corribili, ma ora dentro al bosco, all’ombra fresca di quei boschi fitti ma luminosi.
Negli ultimissimi chilometri mi stacco anche da mio padre. Allungo il passo e, mente svuotata, sempre un passo davanti all’altro, sempre più felice e vivo.
L’ultima salita scorre torrentizia, frammentata da punti di calma, ma anche la fatica oramai non la sentivo più, abbandonata mentre si allacciava le scarpe già da un po’.
E così arrivo alla discesa finale: Andorno Micca sullo sfondo.
Tratto finale, stradine già conosciute alla partenza… e presto gli ultimi 100 metri… e quando poi tra le case ricompare il gonfiabile “Scarpa”… e quando poi ci sono sotto…
Tocco per terra il terreno come alla partenza e il ciclo si chiude; il Casto trail finisce.
Ma ci si porta sempre qualcosa a casa e questa è la più bella verità dei trail. E in particolare del Casto.
Canticchiando qualcosa mi siedo per terra. E bona lé.