Ultratrail delle Orchidee, Augusto ci racconta …

Un racconto avvincente, entusiasmante, da leggere tutto di un fiato: ce lo ha inviato il nostro Augusto, e noi non possiamo fare altro che ammirarlo per il suo coraggio e la sua determinazione. Grazie Augusto per avere condiviso con noi anche questa tua ultima entusiasmante avventura !

Ampezzo, alpi carniche, provincia di Belluno.
Insomma, montagne di tutto rispetto.
Prima edizione dell’Ultratrail delle Orchidee, un giro da 117 km per un dislivello positivo di 8000 m, quota media attorno ai 2000 m con punte fino ai 2600 m; pochissimi iscritti perché una altimetria così su uno sviluppo così corto significa pendenze molto cattive, e infatti per alcuni tratti la camminata a quattro zampe si è resa necessaria.
Siamo appena in 66 alla partenza, considerando che ben 24 si ritireranno chi finisce può tranquillamente bearsi nella riuscita dell’avventura.
Mi iscrivo dato che mi piace provare le prime edizioni, ma appena vedo il tempo limite (35 ore) capisco che per me la cosa si fa dura, se riesco a stare nelle 33 ore sarà già buona, e due ore in anticipo sui cancelli sono davvero poche per queste gare.
La partenza è venerdì a mezzanotte, però causa traffico sulle strade ci metto 7 ore a arrivare, tutte alla guida. Giusto il tempo di una cena (poca roba, un piatto di pasta in bianco “offerto” dall’organizzazione) e poi un’ora e mezza di sonno.
Via con la frontale, subito pendenze assassine: la costante della prima notte è la mancanza di sentieri nelle arrampicate, proseguiamo su sfasciumi appena indicati dalle balises riflettenti che però suggeriscono solo la direzione, il tracciato non è definito e ciascuno segue la traccia che gli è più congeniale.
Nei tratti in costa invece il panorama è spettacolare: ci viene negata la luna rossa dalle nubi, per tre ore pioviggina, ma quando smette e il satellite appare bianco e pieno si vedono nitidi i contorni delle montagne color grigio scuro, mentre il cielo è nero-blu, in un contrasto da brividi che il rosso acceso e definito di Marte rende ancora più sensazionale.
Il primo terzo è molto duro, in 40 km si gioca quasi la metà del dislivello, ma le sensazioni sono buone e riesco a correre appena la salita cessa di essere infernale. I ristori sono e resteranno ottimi fino alla fine, ben distribuiti e con tanta frutta secca.
Albeggia che sono a una casera di altura, mi sciacquo dal sangue una mano che mi sono aperto causa caduta su roccia e continuo, mentre il sole si alza e introduce alla mattina, colorando le rocce tutto attorno di sfumature prima rosso acceso, poi giallo ocra e infine marroncino. Guardo un concorrente e gli dico “ci sarà pure un motivo per cui si diventa Dio”.
Le ore passano, e passano i sentieri e i boschi, sempre aperti e con l’occhio che vaga, e soprattutto con le gambe che corrono appena possibile.
Lo dico subito: il basso numero di partecipanti significa in questo caso (con l’esclusione di chi scrive) che il livello medio è molto alto, infatti chi ha affrontato la prova a cuor leggero la pagherà prima della fine, chi ha le gambe e la testa arriverà con ottimi tempi, infine chi ci sta provando… beh, è qui a raccontarlo e non era per nulla scontato.
Al 45 km parte una pendenza satanica che in un paio di km ci fa salire di quasi 900m, e la cosa peggiore è che viene seguita da un pianoro alla fine del quale (un po’ come una sberla appena dopo un pugno nello stomaco) riparte un’altra rampa, e siamo circa alla metà del percorso.
Peccato che inizi una discesa che mi mette a durissima prova, sia per la stanchezza che per il fatto che mordere il freno a questo punto per evitare cadute mi cuoce i muscoli.
In ogni caso arriva anche la base vita in un rifugio, che maledizione è a metà di una salita, quindi entro, mi riposo, ma all’uscita devo ripigliare a perdere fiato per arrivare a una sella bellissima dove il panorama sembra disegnato.
Ci sono due alpini che hanno con sé coca cola e acqua; non scherziamo che qui siamo tutti adulti, guardo in giro, metto a fuoco un borsone e vedo una bottiglia di rosso che fa capolino.
Ne chiedo un bicchiere, bevo, ne chiedo un altro, ribevo.
Ringrazio e riparto giù in picchiata su sfasciume molto fino, praticamente scio sulla ghiaia e arrivo giù a valle, rinfrancato dall’avere percorso più di metà della distanza ma soprattutto tre quarti del dislivello positivo.
A una decina di km inizia un percorso semplice, ma con tanti km di asfalto, e il ristoro sembra non arrivare più. Ma finalmente inizia la salita: è un bel colpo per l’animo, dopo questa mancheranno due salite e a quel punto ritirarsi non sarà più nemmeno un’opzione, quindi testa bassa e superiamo anche questa che nella mia testa è l’ostacolo più grosso per lo spirito.
Siamo in cima. Tre, due, uno… PIOGGIA! Ma nel senso che faccio in tempo a mettermi la giacca in gore-tex e si scatena la tempesta con lampi e tuoni. Sono le sei e un quarto e perlomeno è discesa, ma due ore sotto l’acqua non me le toglie nessuno. Perlomeno sono così sporco che l’essere bagnato non mi aggiunge nessun ulteriore malessere, un passo dopo l’altro e arrivo a valle.
Qui si ride, più o meno: prima del ristoro bisogna attraversare un torrente che la pioggia ha ingrossato; c’è un ponte di legno, ma è senza parapetto e bisogna aggrapparsi a un cavo steso a altezza uomo, e alla fine il ponte è alto a circa due metri da terra, quindi mi devo stendere, ruotare sulla schiena e farmi scivolare sui sassi fino a terra. Detta così fa tanto wild, ma al momento con le gambe di gesso, il buio che incombe e il culo bagnato non è stato esattamente un dettaglio insignificante.
Arrivo al ristoro e ora c’è una salita di 10 km: la pendenza è tranquilla, ma è tutta strada larga e quindi ipnotica, complice anche la notte che inizia e gli occhi che si devono riabituare al fascio della frontale.
In meno di due ore sono su, 95 km. La discesa passa via al pensiero che dopo c’è l’ultima salita.
Lunghissimo traverso su asfalto e qui parte una storia completamente diversa e, per così dire, autoindotta. Un po’ come il bambino che si sporge dal balcone per vedere che cosa si prova, mentre cammino fisso la strada bagnata, irregolarmente bagnata, e inizio a immaginarmi le forme più fantastiche grazie ai giochi di chiaroscuro.
Basta poco e parte letteralmente una ridda di immagini allucinatorie, comincio a vedere per terra streghe che volano, maghi con la faccia che si trasforma in ghigni, cigni, stelle che appaiono e compaiono… tantissimi piccoli sogni mentre cammino. Entro in un paio di gallerie e le rocce sono man mano mostri, gnomi, leoni, diavoli con bastoni.
Detta adesso non ha alcun senso, ma giuro che quell’ora e mezza di sonnambulismo è stata letteralmente impregnata di tutte queste visioni, belle e inquietanti.
Fino all’ultima salita nel bosco, a quel punto la fatica ha occupato definitivamente il posto di ogni altra sensazione, e ammetto di non avere nessun ricordo fino al culmine, quando è iniziata l’ultima discesa durante la quale il pensiero fisso era per il materassino che mi avrebbe aspettato in palestra.
Il monte lascia spazio al bosco, quindi al prato, quindi al pezzo iniziale del trail ma percorso al contrario.
Arrivo in paese che ormai la frontale non serve più, corro l’ultimo km e taglio il traguardo.
30 ore, 2 in meno del previsto (3 in meno, a dare retta alle ipotesi pessimistiche), quindi un risultato che mi rende soddisfatto, anche solo per il fatto di essere finisher.
Mezz’ora per trovare l’auto (il paese è un buco, lo stesso ho fatto fatica a ricordarmi dove l’avessi parcheggiata), palestra e steso su un materassino per due ore e mezza di sonno. Mi sveglio da solo e eroicamente mi faccio una doccia, a malapena arrivo a lavarmi i piedi che riesco a raggiungere solo con lamenti e cigolii.
Sono le undici e mezza e riparto verso casa. Mi è di conforto sentire più volte casa e un’amica che purtroppo è infortunata, racconto quello che è successo e così facendo mi si fissano le immagini degli ultimi due giorni e la quieta soddisfazione di averne infilata un’altra.

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