Augusto Losio ci ha inviato il drammatico racconto di un’impresa difficilissima rimasta incompiuta. Ma le persone forti si distinguono proprio per il coraggio e la determinazione con cui gestiscono e superano gli insuccessi. Forza Augusto, la prossima volta andrà certamente meglio!
Doveva essere un bel sogno che si realizza, è restato purtroppo solo un sogno.
28/29 giugno, Grand Raid du Queyras, 132 km per 16.400 m di dislivello totale, nel parco naturale del Queyras a poco più di un’ora in auto da Cesana al confine tra Piemonte e Francia; arrivo in treno a Chivasso e in quattro andiamo in auto, sarò ospitato sia a mangiare (e a bere, mamma mia quanto vino…), che a dormire (due ore e mezza in tutto, notte pre-gara quasi persa) da amici trailers.
Sveglia alla una e dieci, andiamo da Cesana in auto fino a Aiguilles, partenza alle 4 di sabato mattina ancora al buio ma con temperatura accettabile.
Subito il primo 1.000 D+, e attraverso un’alba magica con le montagne a 2.800 m che si illuminano, il Monviso di fronte a far buona guardia.
La discesa è un sogno, il percorso mi ricorda tutti quelli che ho corso la scorsa estate in val Maira, mi vengono i lucciconi dall’emozione; e poi è tutto un proseguire nei single-tracks che si inerpicano sul secondo 1.000 D+ fino a una babele di torrenti originati da due laghi di alta quota.
Il cielo è terso come non mai, il passo è buono anche se fin dalle prime ore sento che sotto alle piante dei piedi qualcosa non va: laggiù è tutto “molliccio”, non so se vesciche o peggio, ma faccio finta di niente e comunque corricchio sia in piano (quel poco che c’è) che in discesa.
In salita incredibilmente per me, pavese piatto piatto, continuo a rimontare posizioni; Silvia mi dirà che agli intermedi passerò dalla 85° alla 40° nei primi 50 km.
Anche i cancelli orari (assolutamente toppati dall’organizzazione, troppo stretti e che falcidieranno più della metà dei partenti, una strage) mi sono accessibili, viaggio sempre con un anticipo di 3 ore.
Quindi sto tranquillo, e ai ristori mi concedo un mix tremendo ma che mi piace un sacco: Tuc al gusto formaggio con cioccolato fondente (sì, lo so, è agghiacciante, ma è quello che la gola e lo stomaco richiedono e non tento di contrastare l’esigenza).
Purtroppo, nonostante le numerose sollecitazioni, niente birra; l’unica sarà in un bar verso la una, e ci voleva proprio.
Nel pomeriggio il tempo si guasta un po’ ma nulla di che, due gocce e proseguo tranquillo al trotto, arrivando al ristoro del 53 km.
Qui c’è una salita che di nuovo mi piace, circa 700 m D+, scavallo e un tratto tecnico assassino in discesa mi costringe a rallentare e perdere il contatto con alcuni concorrenti, ormai in discesa i piedi non mi permettono di correre, quindi lo faccio in piano però appoggiando solo la punta senza toccare terra coi talloni e con la parte centrale.
Ma al successivo ristoro del 73 km arrivo, e finalmente mi tolgo le scarpe.
Bene, le calze non sono insanguinate, ma non me le tolgo per paura di far danno strappandomi pelle o carne, rimetto le scarpe e riparto verso le sette di sera per il tratto peggiore, 20 km di salita continua e 1.600 m D+, il che significa estrarre la frontale tra un paio di ore.
Così è: cala la notte e come al solito mi viene un po’ di timore, la voglia di proseguire scende e allora ogni tanto stringo due pupazzetti che Luca e Pietro mi hanno dato per accompagnarmi.
Li chiamo proprio così come i miei figli, e a poco a poco mi torna lo spirito buono, addirittura ora accelero, sono le 11, continuo a spingere e mi stacco dai compagni.
Sono solo, sono in vetta ai 2.600 m.
Adesso piove forte, il vento soffia incessante, il cielo è completamente buio, ci sono 3 °C e 7 km di discesa.
Il sentiero è segnato male, le balises riflettenti sono anche a 200 m l’una dall’altra e è pieno di curve, quindi non se ne vedono due consecutive, il che significa andare avanti spesso a tentativi.
Però procedo bene in quello che ormai è un pantano quasi continuo, l’istinto è battezzato nell’esperienza dei trail passati.
Questa è la parte decisiva per me.
Non sono mai stato così lucido, la mia mente funziona perfettamente e sono sereno.
Non ho la minima paura di perdermi; anche se la giacca in gore-tex è zuppa non sento freddo, so solo che devo scendere, che ci metterò un’ora, ma che arriverò al ristoro del 100° km.
E intanto parlo con me stesso: penso che avrò ancora 8 ore di cammino e che terminerò per le dieci di mattina.
Ma dopo il ristoro, ovvero dopo essere uscito da questa tempesta, dovrò di nuovo risalire: ecco, penso che una volta uscito da questa situazione dovrò ributtarmici.
E penso a tre cose: Silvia, Luca, Pietro.
Penso che io mi sto divertendo, che sto bene, che voglio continuare.
Ma penso anche che sono partito per tornare a casa sano, che troppe volte ho letto di ipotermie improvvise, di notti che non sono mai diventate giorni, di famiglie spezzate, di come ogni volta mi sono detto che non ne valeva la pena.
Io so perfettamente che cosa ci faccio qui, sto facendo quello che più mi piace, mi stupisco della mia serenità e di come tutto mi appaia chiaro.
Sto per fermarmi.
Per la prima volta dopo una trentina di trail e ultratrail non sarò un finisher, non mi metterò la maglietta dell’arrivo.
Avrò perso.
E sia, brucerà da matti, ma è la scelta giusta.
Arrivo al ristoro con tanti altri, due in ipotermia portati via dall’ambulanza.
C’è chi si ferma e chi prosegue, io la mia decisione l’ho presa.
Ci riportano all’arrivo in auto, lascio il pettorale all’organizzazione, non lo voglio portare a casa.
Sono le cinque di domenica mattina.
Quegli ultimi 32 km non li vedrò per questa volta, ma so di avere ancora la possibilità di poterli fare.
Ho imparato tante lezioni questa volta: la prima è che non sono così scemo e che riesco tuttora a stabilire le vere priorità, la seconda è che non si deve mai dare nulla di scontato in montagna.
La terza è che non ho più paura di stare da solo di notte, e questo mi servirà a fine agosto sui Pirenei, quando chilometri e dislivello saranno ben maggiori di questa volta.
E la quarta è che percorrere intere montagne a piedi è un viaggio che ciascuno intende a modo suo e mai nella stessa maniera, ogni viaggio regala sensazioni che restano uniche e irripetibili, e che la voglia di farne un’altra resta la stessa sia che si concluda l’ultima sia che, ahimé, la fine del sentiero non coincida con la fine della storia.