Augusto Losio ci racconta con vivacità la sua avventura al trail di Arenzano lo scorso 2 maggio. Grazie Augusto per il tuo contributo!
“Finalmente faccio un bel calcolo, si modifica lungo il percorso, nel risultato, come un discorso … improvvisato”.
Ecco, comincio da questa canzone di Samuele Bersani per descrivere un trail che sulla carta ha certe caratteristiche di lunghezza e dislivello (60 km e 4000 m D+), ma che in campo si è rivelato ben più ostico del previsto, un trail da masticare a volte con rabbia, e sempre comunque duro da inghiottire, boccone per boccone.
Un trail in cui tutte le mie previsioni sui tempi di percorrenza sono ben presto crollate, un prezzo che alla fine sono stato ben felice di pagare a fronte della bellezza struggente di un sabato passato tutto sulle gambe.
Sono reduce dall’ultratrail dei Monti Cimini di tre settimane prima (80 km e 4000 m D+), più lungo nei numeri ma decisamente più semplice e “umano”.
Arrivo in treno, ritiro il pettorale, ceno da solo sugli scogli e guardo il mare e il cielo, a quest’ora un diluvio di verdi e di grigi che non mi lasciano prevedere però il meteo dell’indomani.
Spero sia buono; le premesse ci sono tutte e faccio un giro per il paese, rivedo posti che per anni ho frequentato. Mi pare di essere in una canzone di Paolo Conte, ma adesso è ora di andare in palestra a cercare il sonno.
La notte trascorre bene; scendendo alla partenza rivedo un po’ di belle facce note, stemperiamo l’attesa che si scioglie appena ma non mi molla: non smetterò mai di sentire la bocca dello stomaco un po’ chiusa prima del via, forse perché è un via che apre i cancelli di una intera giornata su sentieri a inseguire la bella fatica, incongrua e bizzarra se penso alla fine, con la testa svuotata e le gambe di gesso.
Tre, due, uno: ciao.
Siamo partiti e per la prima volta il buio non ci avvolge, il sole è sorto e si comincia a mordere l’asfalto, che sarà davvero ben poca cosa in un tracciato dove invece le piante dei miei piedi arriveranno quasi (ho detto quasi!) a rimpiangerlo.
Ci vuole poco per salire e vedere i primi panorami; da subito il filo conduttore della giornata appare chiaro: ti giri a destra e c’è il mare fino a perdersi, ti giri a sinistra e incombono le cime dei monti irrealmente prossimi, due estremi per me così distanti e adesso a un tiro di schioppo.
Il primo terzo del percorso, per come schematicamente l’ho suddiviso io, è un susseguirsi di tre salite e discese prima dell’avvallamento al ventesimo chilometro; nessuna pesta davvero e siamo all’interno del mio limite del corribile, rivedo la picchiata attraverso un bosco che pare un toboga (rigorosamente da farsi in fila indiana) e che ne regala lo stesso divertimento bambinesco e selvatico.
Scopro invece un tratto assasinamente bello che corre in cresta e che offre alla vista squarci imperiosi di mondo attraverso piccole guglie che frangono spuntoni di roccia su cui ci inerpichiamo, per proseguire su un percorso che alimenta il mio desiderio di fermarmi in continuazione a scattare fotografie.
Già, le foto: a pensarci bene sono istantanee un po’ tragiche, nulla può rendere certe visioni perché la visione è solo uno dei motivi per tentare l’impossibile, ovvero catturare non tanto un’emozione ma qualcosa di più vago e diafano; è una sensazione, che è ricordo ma anche odori e rumori e non solo, perché è questo tutto insieme nello stesso momento, che dura solo quel momento, diventando proprio per questo irrecuperabile e prezioso.
Momenti da trail? Sì, ne sono convinto ormai, momenti da trail che arrivano inaspettati e che spingono le gambe; tant’è che siamo finalmente al primo ristoro solido che significa focaccia, che a sua volta (almeno così immagino io) significa Liguria.
Eccoci al secondo terzo di gara, che come tutte le belle conquiste si presenta subito con la parte ostica di una salita che ci porta ai 1100 metri.
Il fondo è ben segnato e ben percorribile; queste salite mi piacciono perché non mi guardano con quel fare sospetto di dolcezza che si tramuta in rampa: parla immediatamente la lingua ben comprensibile dell’assenza di equivoci, la pendenza inizia da subito e da subito anche l’antifona che proseguirà fino in cima.
Difficile trovarsi da soli: vuoi per la difficoltà vuoi per il rapporto tra partecipanti e lunghezza del trail, per ogni tornante in cui si abbandona un compagno ce n’è un altro che te ne fà trovare di nuovi.
Non penso di essere migliorato granché in questi anni di corse, ma almeno ora riesco a spiccicare qualche parola anche quando sono impegnato nel trotto, e quindi posso sostenere quella minima conversazione che allontana l’eventuale noia o il temibile sconforto, una scimmia pronta a far capolino ogni volta che butto un occhio al tempo trascorso, e che ho conferma dell’allungamento di quello finale che avevo previsto.
Il tempo metereologico, beh, quello invece è un gioiellino: da che siamo partiti, e fino alla fine, il cielo è azzurro, qualche nuvola lo solca, bianca a far contrasto coi colori vividi del verde che sfuma dall’erba agli alberi e viceversa.
Sulle punte e nei tratti più esposti una brezza che si fà vento, mai freddo e comunque di profondo ristoro vista la temperatura più che clemente.
Siamo alla cima finalmente, mi fermo al ristoro idrico (questa in effetti è nuova: ho sempre trovato ristori idrici anche un minimo solidi, invece qui non si sgarra nemmeno di un grissino) e bevo, per proseguire sul tratto di altezza media maggiore, fino al punto massimo della gara.
L’ultima salita si rivela più dura di quelle già passate, e alcuni tratti (per quanto brevi) su asfalto non contribuiscono a migliorare la situazione.
Ogni tanto allora mi ristoro col paesaggio: mi piace pensare che la mia evoluzione più significativa sia stata quando mi sono reso conto che la voglia di prendere fotografie è il migliore indice della mia sanità mentale; finché l’occhio ha l’energia di riuscire a perdersi e a cogliere bagliori di stupore, allora saprò che una seppur minima possibilità di uscirne finisher c’è ancora.
Le gambe possono gridare vendetta, ma se lo spirito tiene vuol dire che la lucina infernale della riserva deve ancora accendersi; occhieggia forse da dietro la prossima curva, ma per adesso il motore tiene; e di “per adesso” è pieno un trail, il ritornello dei “per adesso” può essere anche un buon compagno e ridare un po’ di conforto, senza comunque dimenticare di essere un privilegiato a essere in contesti simili.
Appunto: ehilà, pronto? Sveglia, vogliamo mica farci mancare il preziosissimo gadget finisher dell’arrivo.
Va là che la strada è ancora lunga e che problemi fisici non ce ne sono, arrivo improvvisamente sul tratto corribile e divertente che porta al secondo ristoro solido, un rifugio molto bello incastonato ai piedi dell’ennesima cima.
Che beffa, da qui dovremo ripassare prima dell’ultima discesa; pensa te che Arenzano è a pochi chilometri mentre a me ne restano più di venti.
Su per un’erta stradina e il morale col segno più: sarà, ma io non ci credo che sono al mare, qui è tutto un guazzabuglio di rocce e sassi, dubito della mia sanità mentale ma salgo e finalmente arrivo.
Ecco, mi dico, finalmente quella decina di chilometri in discesa, qui mi gioco il ritorno in treno se rispetto un minimo la tabella di marcia anche se peggiorata.
Tracchete: mi basta un attimo per capire che non ce n’è proprio. La discesa in realtà è un single track folle e aguzzo, attrezzato con corde e animato da una miriade di volontari che mi tengono sott’occhio.
E ruvidi come la natura qui intorno: alla domanda sul tempo per arrivare al prossimo paese la risposta è una spada di ghiaccio tra le costole: “col tuo passo c’è ancora un po’”.
Ora, non bisogna essere dotti filologi per interpretare tutti i sottintesi: nonostante l’attrezzatura da provetto trailer (oggi ho persino le scarpe che s’intonano con lo zaino) devo sembrare a mio agio come un cane in chiesa.
Pian pianino, senza risvegliare fibre muscolari e tendini che è bene siano sollecitati il più dolcemente possibile, rantolo al ristoro idrico.
E come un principe mi siedo.
Quel muretto in pietra a secco mi pare un trono, sono dieci minuti bellissimi, ebetamente sorrido al mondo; e il mondo mi sorride.
Che succede ora? Esatto, si riparte.
Mi illudo che la salita, in quanto pressoché l’ultima, sia indolore, quasi una creatura dotata di premure che regali un minimo di requie a chi si ritiene (in maniera illogica) a credito di buone maniere; urca, dopotutto non può andare peggio di prima, è pur sempre la parte finale, ci deve essere una specie di giustizia divina che protegge le bestie che soffrono.
Mah, agnosticismi a parte, questa giustizia non si rivela per nulla, e a poco a poco (sì, stavolta lo stillicidio è lento ma insesorabile) la pendenza si fà sempre più cattiva.
Lasciamo l’asfalto e ci inerpichiamo su per l’ennesima cresta; qualcuno con cui ero prima mi supera e mi grida che andiamo a prendere il treno.
Lentamente, oserei dire quasi con tenerezza, lo maledico fino alla settima generazione.
E’ esattamente qui su quest’ultima erta che alla fine (inaspettato come un bacio alle spalle) arriva un’altra di quelle sensazioni che ti incidono come un tatuaggio: la salita è una belva da domare, ma la frusta non serve, sarebbe stupido; ci si guarda negli occhi senza la volontà di sopraffarsi, l’urgenza è quella di intendersi perché il rispetto è mutuo e condiviso.
Solo questo mi spinge a inanellare un passo dietro a quest’altro, e via così, e non è vero che non ci bado, ogni fibra del corpo è impegnata profondamente e ogni pensiero è assente.
Sono più secco di un osso.
E’ con questo bagaglio inusuale che arrivo all’ultima vetta: sono io e son qui, sono tutto mio e tutto questo lo sta diventando.
Qualche stupida frase di commiato agli ultimi volontari stempera la mia tensione interna mentre lento mi incammino sull’ultima discesa.
A poco a poco comincio a correre: diamine, nelle dodici ore ci voglio stare, e poi sia quel che sia.
Mi pare che una coltre di pesantezza si vada sciogliendo, i monti (bellissimi, bellissimi) sono ormai alle spalle, come ogni buon ricordo a breve saranno solo un ricordo, mentre con una frenesia positiva accellero verso valle.
Ecco il santuario, ecco Arenzano. una bella signora mi applaude e io le grido “è il secondo giro!”.
Lei mi guarda stranita, io sfodero il mio sorriso assassino dei bei tempi randagi e anche lei capisce, e ride gridandomi bravo.
Eccomi, taglio il traguardo, rivedo Lorenzo e lo ringrazio.
Un amico conosciuto sui sentieri mi offre un passaggio per Genova, e incredibilmente riesco a prendere il treno che avevo in mente. Grazie, di cuore.
Ora dondolato dal vagone procedo verso casa.
E’ stato un sabato eccezionale, grazie a tutti, grazie a chiunque.
E grazie anche a me, che è il miglior modo di ingraziarsi il resto.