Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri questo contributo veramente unico di Augusto Losio.
Augusto ci racconta la sua emozionante avventura all’Ultra Trail Atlas Toubkal in Marocco dal 3 al 4 ottobre 2013.
I podisti Avis Pavia sono capaci anche di queste prestazioni al limite delle capacità umane!
Comincio dalla fine, dopo quattro ore dal mio arrivo.
Sono ormai le dieci e mezza di venerdì mattina, sto seduto da solo a guardare l’ultima collina a due chilometri di distanza, un trailer sta scendendo e tra poco, come me qualche ora fa, taglierà il traguardo.
Mi si stringe la gola, mi sale la commozione, si fonde con la stanchezza e con l’orgoglio di avercela fatta.
Un francese si avvicina e mi chiede come è andata.
“Indescrivibile” gli rispondo, poi basta: scendono i lacrimoni e lo intravedo sorridere, mi saluta, mi lascia solo con le mie emozioni.
115 km, 13000 m di dislivello totale (sì, qui le discese contano e spaccano i quadricipiti), 24 ore e 25 minuti di gara.
Questi i numeri, in mezzo tutto il traffico di una giornata perso tra i monti dell’atlante marocchino, panorami mozzafiato e un regime di autosufficienza che l’organizzazione demanda al singolo lasciandolo (e non è una critica) alle proprie capacità di adattamento.
Partiamo alle sei di mattina, è l’alba e la prima salita mi regala i monti a 2800 metri, immerso in una schiuma di nubi più basse, pare di essere sulla riva di un oceano irrealmente immobile che lambisce scogliere brulle e scoscese.
I primi 30 km sono scorrevoli, in mezzo a villaggi primordiali coi bambini che ti danno il cinque e ti salutano.
“Bonjour, ça va?” è il ritornello che scorre via come i sassi sotto ai piedi; tiene compagnia e accompagna, permette di arrivare al primo ristoro con la mente sgombra e il morale alto.
Adesso la parte dura, 40 km senza ristori di alcun tipo e comunque 55 km di zone isolate senza nessuna possibilità di assistenza nemmeno telefonica.
All’attacco della prima salita un trailer sbaglia strada, lo chiamiamo ma ha gli auricolari e non ci sente, è a 300 m da noi.
Mi levo lo zaino e lo lancio a Mark, aspettami qui che vado a prenderlo.
Mi lancio giù e lo inseguo, prima di raggiungerlo corro a manetta per mezzo chilometro ma finalmente lo becco, ‘sto stordito.
“Merçi, thanks, gracias, shukran”; non c’è di che, gli rispondo, il mondo del trail è fatto anche di queste cose e non c’è bisogno di chiedersi se dare una mano al primo che passa.
Adesso si comincia a fare sul serio, saliamo al primo dei tremila e intanto vediamo i terrazzamenti che l’uomo ha costruito con il proprio ingegno, terreni resi coltivabili e concimati con l’ausilio delle sole proprie forze a mais, cipolle e patate.
Non ho mai avuto problemi di altura, respiro bene, cammino spedito dove devo e corro dove posso, bevo con regolarità e ogni tanto mangio la frutta secca che mi sono portato come alimento.
Passiamo attraverso gole e scolliniamo i passi su single track, sono sempre con mark e procediamo belli carichi, scattiamo foto sapendo che purtroppo le immagini non potranno mai rendere quello che stiamo vedendo, qui e ora.
Sono ormai le cinque e mezza, siamo al 68km e ora comincia la parte cattiva: si salirà ai 3600 m con un dislivello positivo di 1000 m in 6 km, poi si scende di 1200 m in 3 km (alla faccia della discesa…), poi si scende di 1200 m in 9 km, poi si sale, poi si scende, poi si sale, poi si scende…
Insomma, viene il bello e a breve scende la notte.
Verso i 3300 m mi fermo e metto la frontale, mi vesto con una maglia più pesante e per ora lascio il goretex e i fuseaux nello zaino (non ne avrò bisogno, combatterò lo zero termico e il vento con un’andatura un po’ più veloce).
In cima le condizioni meteo rendono difficile seguire i segnali fosforescenti, il vento ci sposta di peso e mi incasso per non farmi deviare, ma finalmente arriviamo.
Scendiamo a valle e comincia una discesa infinita che termina prima sul greto di un fiume e poi in una strada infinita, noiosa e ipnotizzante.
è l’una, arriviamo a un ristoro, tazza di pasta in brodo con carote lesse, fanta, frutta secca.
Ripartiamo, e c’è Davide.
Lui ha i crampi da circa 48 km (siamo al km 88), mentre mark ha problemi al ginocchio e in discesa proprio non va.
Bene, comunico che ormai arriveremo insieme, non frega nulla del tempo finale, ma la tribù non si dividerà.
Passo davanti, con l’accordo che chiunque abbia problemi avvisa gli altri, se si ferma uno si fermano tutti a aiutare.
Aumento in salita, e i miei compagni stanno dietro.
Lla salita adesso è selvaggia, il sentiero (anche quel poco che c’era prima) non c’è più e si devono scavallare sassi e radici enormi per arrampicarsi verso la vetta; il buio è integrale e ci si aiuta con le mani.
Il silenzio non è mai stato così opprimente come in questi ultimi chilometri, ma la testa c’è e mi sento bene; ultimo ghiaione, strappi continui (chissà come sarà mai il panorama in questi punti, mi piacerebbe saperlo), ma alla fine arriviamo.
siamo all’ultima cima, passiamo tra le due bandiere marocchine e laggiù si vedono le tende dell’accampamento dove ho vissuto per quattro giorni.
E’ la discesa finale, ringrazio dio che non mi è successo nulla, e intanto canticchio “l’internazionale” in inglese.
Con noi c’è simun, un ragazzo croato, che mi sente e mi accompagna fischiando il motivo.
Sono davvero gli ultimi passi, è ancora buio e arriviamo in valle.
Sono svuotato di tutto: il toubkal era un sogno, non tanto per distanza e dislivello ma per la difficoltà insita nel tracciato e per l’autosufficienza che comportava.