Questa volta é il figlio Pietro a raccontare con passione il Trail Oasi Zegna 2021 corso insieme a suo padre Augusto Losio.
Per undici ore e mezza ho girato per montagne biellesi assieme a mio padre. Ecco: l’ho detto.
Il TOZ (Trail Oasi Zegna) è stata una marcia sfiancante ma anche un nuovo step raggiunto, 60 chilometri in montagna. Senza dimenticare i 3600 metri di dislivello positivo che con questo chilometraggio significano rampe e infinite discese.
Come ogni trail però l’avventura inizia da prima della corsa. Sarebbe troppo semplice altrimenti, ma il bello di questo sport è anche la cornice attorno, i personaggi, le sfumature, gli aloni. Dalla serata passata su una panchina in località Oasi Zegna a mangiare pasta al tonno offerta da Andrea, infortunato e presente per fare assistenza a una corritrice il giorno successivo, ai suoi racconti di incontri di daini rincorsi da lupi, fino alla notte passata dormendo sui sedili posteriori di un’automobile assieme a mio padre pensando che bisogna essere completamente imbecilli, o totalmente insani, per fare qualcosa del genere qui, ora, così vicino.
Ma la serata e la notte passano alla fine, si dorme come si può e puntuale alle 5 di mattina siamo svegli. Tra un’ora e mezza si parte.
Il fresco mattutino fa ridere pensando a cosa ci attende. Andrea, quello della famosa pasta al tonno della sera prima, guardando l’altimetria commenta che tra l’ultima salita e i chilometri successivi il caldo farà strage di runner sudati e accaldati. Molto gentile da parte sua che non corre, ma si rivelerà profetico.
Verso le 6.20 si avvicina la partenza. Sì, ho paura. Sì, mi sto per commuovere. Sì, vorrei stare a casa. Sì, forse è ora di partire e non pensarci.
Per un errore dei segnali su percorso (unico errore, per il resto il tracciato era chiarissimo) dopo pochi chilometri siamo tra i pochi fortunati che imboccano quasi subito il bivio giusto, ritrovandoci in pratica nel gruppetto di testa, o quasi. Da qui in poi salita, il TOZ non perdona e ci si inerpica voracemente su per le montagne. Da sopra si vede lontana la pianura con la sua coltre di smog, calura, afa e piattume monotono.
Da questo punto in poi ci troviamo a correre con gruppetti che ci accompagneranno praticamente per tutto il percorso, alcuni superandoci in discesa, altri in salita, poi recuperati in altre fasi. Dopo questo primo tratterello di su e giù arriviamo al primo ristoro. Siamo al quattordicesimo chilometro. Da qui si sale sul serio, poche storie, iniziamo il primo salitone del trail, che non sarà il più duro. Si sale su una cresta con alcune punte e veloci discese ogni tanto. In cima siamo a 1800 metri sul livello del mare e abbiamo superato il ventesimo chilometro.
Con le gambe già in fiamme, l’acqua calda nel camer bag (che la rende anche al gusto plastica) e la voglia di arrivare scendiamo per una ripida discesa che ci porterà al secondo ristoro. Un po’ di corsa, un po’ camminando, si arriva. Da ora si sente davvero il caldo, iniziano le ore più toste della giornata e il numero di arrivi ne risentirà.
Dopo un breve tratto in piano ennesima salita che si sente, ancora tra pratoni verdi, macchie di alberi e queste montagne ondeggianti come curve gaussiane particolarmente pronunciate. In lontananza spesso spunta il Monte Rosa, che in effetti non è distantissimo, e qualche altra traccia di neve sulle montagne in panorami diversi da quelli dove si trovavano le nostre gambe.
Dopo la salita subito giù ancora. In fondo parte la salita più infame della corsa: quando il buon Dio l’ha creata deve avere pensato “Mettiamo qualche rampa verticale intervallata da tratti di ripida salita a sole e da qualche curva che non ti faccia intravedere il dopo”. Ha funzionato.
Verso la parte finale un ristoro è una breve pausa prima di uno strappo conclusivo, questo davvero pesante, un tratto di strada superato il quale si vede in lontananza la pianura. Dà un po’ di speranza, ma la strada è ancora lunga. Anche perché ora c’è un pezzo che a guardare l’altimetria fa venire le lacrime agli occhi, una discesa dritta e particolarmente ripida.
Fortunatamente non si tratta di un prato sotto al sole come pensavamo, ma i quadricipiti ne risentiranno per giorni.
Arrivati in fondo mancano poco più di dieci chilometri. Da qui in poi per me è terreno inesplorato, chilometraggio sconosciuto.
Un tratto di saliscendi che permette ogni tanto di aumentare il passo e di corricchiare. Siamo oramai sulle ultime montagne prima di scendere definitivamente a destinazione. Nel tratto finale si sente la voglia di arrivare. Oramai si procede quasi per inerzia anche se mentalmente sono fin troppo allegro e devo trattenermi, a causa anche di qualcosa di pericolosamente simile a vesciche sotto ai piedi, oramai ridotti a un blocchetto compatto e uniforme tenuto insieme dalle calze.
Verso la conclusione incontriamo ancora Andrea, che ci aveva già raggiunto qualche tempo prima, che girando per queste montagne in auto ogni tanto non resiste alla tentazione di venirci incontro. E mentre ci sprona ad aumentare la velocità e stiamo già pensando se sia meglio zittirlo con un sasso o un bastone siamo ai chilometri finali, discesa per boschi fino a Oasi Zegna.
Nonostante non sembri arrivare più, corriamo questo tratto finale aumentando la velocità e finalmente ci siamo, l’ultima salita in asfalto, breve tratto finale, scala infame da perderci denti e ginocchia e poi il gonfiabile dell’arrivo. Sono le 18, anzi pochi minuti prima. È stata ben più dura di ciò che immaginavamo, e i 52 ritirati lo confermano, ma ci siamo e come ogni volta è ciò che provi sotto al gonfiabile all’arrivo che conta qualcosa.
Come mi ricorda mio padre l’ultimo step saranno gli 80 chilometri, poi è terreno libero. Si vedrà, intanto ai 60 ci siamo. E nonostante tutto ne vale sempre la pena, già all’arrivo conto i minuti che mi separano, tornando indietro, da quando ero su quelle montagne. Ricordo a me stesso che ci tornerò di sicuro, per ora va bene così.