Gianfranco ci ha inviato questo articolo spiritoso, in cui ci racconta la sua esperienza. Penso che molti di noi si potranno riconoscere, almeno in parte, in quanto scrive.
Grazie Gianfranco, aspettiamo altri articoli da te !
Cerco solo di allontanare i miei pensieri e i problemi cresciuti negli ultimi anni.
Comprensibilmente è stato difficile capirlo per chi mi sta vicino: quando torno “sono meglio” per tutti.
Ma perché, in età ormai un pochino matura, un autentico e riconosciuto Campione Interregionale di Corsa a Tavola, “abbandona” la famiglia e si butta a corricchiare in stradine di campagna, spesso a orari non proprio normali e con condizioni climatiche incomprensibili ai più?
Sicuramente il primo mandante fu un camice bianco: incontrato per lo squillo di un campanello di allarme, paventò concerti di campane ben più pesanti e definitive.
Poi iniziai l’abituale profusione di impegno personale, tutt’altro che minimale quando si è deciso troppo in fretta che l’obbiettivo deve essere raggiunto.
In seguito si aggiunse, malandrino, un altro tipo di camice, questa volta blu e operante in un genere diverso di clinica: il mio meccanico podista avisino.
Mentre mi “succhiava” sangue dal portafoglio per la salute dell’automobile, i miei occhi non poterono evitare volantini dispersi di una corsa avisina, definita “La Nostra”, proprio a Pavia, nel mio quartiere, di lì a pochi giorni: un segno del destino.
In fondo si stava materializzando un ritorno alla casa giovanile: l’Avis per cui attaccavo volantini per le raccolte sangue negli anni delle scuole elementari, Avis che purtroppo non riuscì ad accogliermi idoneo negli anni successivi per il ben più alto ruolo che svolge.
Venticinque anni senza sport e poi … svegliarsi alla domenica mattina alle 6 e iniziare quello che è ormai divenuto un rito.
A dire il vero, la cerimonia inizia il giorno prima.
La pre-iscrizione del sabato alla marcia domenicale è ormai un simbolico e inebriante “il dado è tratto”.
Alla sera guai a distrarmi dalla preparazione della borsa, capiente per ogni avversità ed evenienza. Anche ad agosto non manca un paio di “leggins” lunghi, memore di una tempesta di vento e acqua affrontata in mutande e canottiera, sportivamente definite pantaloncini corti e canotta, ma che offrono lo stesso livello di riparo.
Fenomeno paranormale, alla domenica mattina la sveglia non suona mai a disturbare il resto della famiglia: la mia mente si desta sempre prima.
Si esce alla chetichella dalla camera da letto, ci si intrufola al buio in bagno e cucina, si chiudono le porte alle spalle e si provvede alla colazione, affinata col tempo dopo alcuni stop da “appesantimento”. Quando la “tapasciata” è abbastanza vicina, alle 7 al massimo si accende la luce sul pianerottolo, si chiudono tutte le porte, seduto sui gradini ci si infila le scarpe da corsa e si scappa.
Eh sì, perché io non corro: scappo.
Salvo scoprire che doppi vetri e tapparelle abbassate non mi hanno fatto percepire pioggia battente con abbigliamento inadeguato. Per fortuna ho la borsa di Mary Poppins a risolvere.
Cerco di assaporare ogni momento, a partire dal viale di casa sempre deserto, una visione ferragostana, per mesi con ben altre temperature, ma sempre stupenda. Al massimo si possono incrociare auto di compagni d’avventura podistica o ciclistica.
Raramente ho dovuto accontentarmi del percorso più breve tra i diversi previsti, di solito affronto il più lungo. Certo, con il mio ritmo, con le mie soste, ma a spingermi avanti è l’obbligo di tornare all’auto ferma alla partenza prima che se ne siano andati via tutti.
Senza eccessivo affanno o controllo cronometrico.
Io non faccio le competitive ………… perché non sono competitivo.
Non mi spaventa la pioggia, anche consistente.
Uno dei ricordi che affiorano nei momenti di difficoltà della vita quotidiana: più di 20 km su e giù per le colline di Miradolo, a scrosci alterni per tutto il percorso. Anche all’inizio dell’ultima discesa, affrontata volutamente a braccia aperte, come un pazzo in fuga.
Perché io non corro: scappo.
E all’arrivo foto ricordo del pulcino bagnato con la Protezione Civile alla quale, lungo il percorso, avevo inutilmente chiesto di chiudere i rubinetti del cielo.
Odio l’asfalto, facile e avventuroso solo per evitare le auto.
Adoro lo sterrato impervio, i sentieri boschivi e quelli lungo i canali che mi fanno tornare alle giornate di vacanza al paese: mi vedevano a casa solo per i pasti, il resto del giorno ero a vagare nella campagne a piedi, poi, crescendo, in bicicletta.
Paradosso: in tutti i paesi confinanti organizzano corse, non nel “fu” mio. Magherno, Gerenzago, Inverno e Monteleone, Sant’Angelo Lodigiano, Valera Fratta. Ma Villanterio no.
Meraviglioso asciugarsi e cambiarsi poi, stravolti, in auto. Soprattutto d’inverno, quando i vetri si appannano a celarti. Dopo 17 anni mi ha abbandonato la Kangoo, potevo forse non dotarmi nuovamente di una simile cabina-armadio?
Arrivati a casa……doccia? No, troppo breve e rivitalizzante. La stanchezza rasserenante si gusta di più dopo un lungo bagno.
Da quando mi sono alzato all’alba ai primi km corsi penso “Ma chi me l’ha fatto fare”, ma tornato a casa guardo subito il calendario della tourneè provinciale, dove sarà la fuga di domenica prossima.
Perché io non esco: fuggo.
Mentre la pre-anestesia faceva effetto, ricordavo una sera la Gianna alla Sede Avis dire: “Enzo, ti ricordi quando eravamo più giovani che correvamo nelle pozzanghere e nella neve, sporcandoci come dei bambini?”.
E in quegli ultimi momenti di lucidità pensavo che avrei dovuto impegnarmi per tornare al più presto ad inzupparmi, a prova della guarigione, per me e per chi mi sta vicino.
Io non corro: scappo. Io non esco: fuggo.