Gran Trail Courmayeur, 90 km, 6000 m di dislivello positivo

Riceviamo da Augusto il resoconto di un’altra sua avventura. Il racconto è vivace ed emozionante, come sempre. 

Gran Trail Courmayeur, 11 luglio 2015, 90 km, 6000 m di dislivello positivo.
Ma non basta questo; un fondo di sentieri poco corribili, qui è montagna sul serio tutt’intorno al Monte Bianco. È vero che il rapporto distanza/dislivello pone questa gara tra le più dure d’Europa, come ribadito durante il briefing mattutino, ma in più il fondo peggiora ulteriormente le cose e solo in pochissimi tratti (tranne per gli alieni dai tempi mostruosi) è possibile lasciare andare le gambe nel tentativo di scioglierle un po’.
E poi sensazioni strane e mai provate, ma di questo parleremo poi, verso la fine.
La giornata è molto bella, fin troppo calda ma stazionando per l’80% sopra ai 2000 m l’effetto benefico del venticello fresco alleggerisce di non poco la cappa estiva.
Questo non impedirà che in quasi 18 ore io beva tra i 4 e i 5 litri di liquidi senza mai sentire conati di nausea, segno che l’idratazione è proprio sete e necessità di evitare la disidratazione, bevendo anche dai ruscelli di altura nei punti più distanti da muschi e piante per evitare possibili problemi intestinali.
La partenza è alle 6, siamo in circa 180, il primo tratto in piano stempera dopo pochi km per diventare salita e farci ascendere in quota entro le nove di mattina.
Siamo al 23km e sono passate quattro ore e mezza: accidenti, un quarto di percorso e quindi previsione finale 18 ore, mentre pensavo di stare nelle 16.
No beh, siamo troppo indietro e mi sono sciroppato molta salita, probabilmente è ancora presto per tentare valutazioni attendibili… ma è solo una pia menzogna, il fondo è difficile e a poco a poco smetto di illudermi di poter recuperare tempo col passare dei chilometri e del dislivello.
Da quest’anno approfitto in ogni trail dei tratti corribili, e anche oggi appena posso parto al trotto recuperando comunque un po’ di posizioni.
Arriviamo al 30km circa e inizia un tratto brutto su roccia, posso solo procedere con estrema cautela aiutandomi con le braccia dovunque ci sia un appiglio.
Appartengo con ostinazione a quel 15% di trailers che si rifiuta di usare i bastoncini, sia per mancanza di abitudine sia per una sensazione (illogica, peraltro) che siano un aiuto improprio, mentre nella realtà preservano gambe e schiena in primis (oltre a addominali e anche) dal lento logorio di tante ore.
Scendiamo verso alcuni laghetti per risalire subito su single track, il sole è pieno e la maestà del Monte Bianco non mi abbandona mai: poterlo ammirare su tutte le sue facce è l’occasione per scoprirne le parti ghiacciate, quelle a roccia nuda, i rivoli di cascate che cadono verso valle e il turbine di colori così definiti da sembrare un disegno.
Arrivato a uno degli innumerevoli punti a 2600 m scendo verso il ristoro del 50km, dove arriverò verso le 14,30.
Qui bevo e carico il camel-bag, ma sto attento a non mangiare: devo tenere lo stomaco un po’ vuoto per accogliere l’acqua e non occuparlo di solidi (finché non ne sentirò l’esigenza impellente, ma senza rischiare di nutrirmi quando è troppo tardi: è difficile le prime volte capire fin dove puoi spingerti a lasciarti consumare senza che sia a un certo punto troppo tardi; non è vero che si beve e si mangia quando se ne avverte l’esigenza, ma quando se ne sente la necessità).
Se ripenso a quello che mi avrebbe aspettato quasi non ci credo ancora; passate due salite ripide ma su sterrato mi incammino sul Mont Chetif, fino ai 2800 m.
Dopo poco incontriamo tratti attrezzati con chiodi e catene, qui è arrampicata vera con pendenze superiori ai 45°, ovvero al 100%.
Di tanto avanzi e di tanto ti elevi, tutto su spuntoni dove le mani devono essere assolutamente libere, la distanza da chi mi precede serve per evitare che mi arrivi una scarpa in faccia, e nel frattempo giù a sinistra Courmayeur che appare in fondo al baratro, a preoccuparmi di quando dovrò scendere per arrivare al 60km e ripartire.
E’ pazzesco, vado avanti così per quasi un’ora, non ci credo che ci fanno salire di qui… arrivo in cima e semplicemente inizio a scendere su pendenze simili, culo a terra e freno tirato.
Un ragazzo è steso a terra, ha appena vomitato e ormai è un sacco vuoto, aspetta i soccorsi; procedo e pian piano il sentiero si addolcisce, adesso sono gran balzi su gradoni in terra, poi corsa leggera, infine Courmayeur.
Sono le cinque meno venti, mi fermo e bevo una birra, poi un’altra, e mangio un pezzo di fontina.
Parto ma mi fermo appena dopo per togliermi le scarpe e pulirmi con le mani i piedi, le calze, l’interno delle scarpe.
Le mie mani sono ormai un concentrato di sporco e sudore, considerando che ci dovrò mangiare ai prossimi ristori mi metto pure a ridere, starò attento a toccare solo quello che mangerò io (tanto sono certo che molti non avranno questa accortezza, diciamo che le preoccupazioni igieniche non restano a lungo in cima alle priorità di una gara…).
Ora è ascesa al rifugio Bertone, circa 800 m in meno di 5 km su un sentiero che si incattivisce col procedere del cammino.
Ho finalmente imparato una regola: in salita non fermarsi mai a rifiatare, per nessun motivo; fermarti e riprendere i giri costa il doppio dello sforzo, quindi giù sorsi di acqua ormai calda del camel-bag e via sui tornanti.
Arrivo finalmente, e qui mi butto su un prato per 10 minuti.
Dopo il rifugio un lungo tratto di completa solitudine che va avanti per almeno un’ora e un quarto: non posso camminare adesso, è un falsopiano, ricomincio a correre che sono quasi al 70km e smetto di contare i chilometri.
A che cosa serve? Devo o no farne 90? E essere a 25 o 20 o 15 dalla fine, a che serve saperlo? Devo arrivare alla FINE, proiettare la distanza e il dislivello che mancano è esercizio stupido, che tra l’altro rischia di farmi andare fuori di testa anzitempo.
E’ ancora chiaro, stai buono, pensa al minimo, risparmia quel che puoi e piantala lì di distrarti: devi correre, e punto.
Adesso si apre il paesaggio e vedo il rifugio Bonatti, ma sono sempre più affranto; mi fermo e mi dicono che mancano 17 km e 700 m di positivo, tra 7 km c’è la discesa, ma prima due salite che si faranno sentire.
Riparto pensando che devo finire la salita senza accendere la frontale, conquistarmi il pezzo finale alla luce del giorno.
Qui accade.
Qui, esattamente qui. Sento ancora i brividi.
Ancora non capisco che cosa mi sia successo, e a ben pensarci (anche se mi ha salvato) non sono sicuro che voglio che mi capiti ancora.
Almeno non a breve.
CLAC, tutti i dolori delle gambe sono solo un ricordo.
CLAC, via anche le braccia, poi il collo.
CLAC, infine gli addominali, dopo il dolore dei colpi di tosse delle ultime ore.
Sono solo testa, sono lucido e sono solo testa, non c’è più nient’altro.
Improvvisamente mi metto a parlare: “sono qui, PERDIO sono qui, non mi fermeranno MAI!”.
Prendo il telefono e chiamo Silvia che è a casa, le ripeto le stesse parole due, poi tre volte.
E tutte le volte l’emozione che mi avvolge non riesce a interrompermi, la gola è chiusa e gli occhi pieni di lacrime, ma glielo ripeto.
E poi metto giù.
Adesso un po’ è passata, pochi assurdi minuti, ma eterni.
Cammino e riprendo familiarità col mio corpo, forzo l’ultimo tratto e 450 m di dislivello sono andati.
Scendo per altri 200 m, il buio comincia a accogliermi, così come il primo freddo della sera.
Adesso è veramente l’ultima, per fortuna la scarsa luce mi risparmia la visione di questa ennesima salita e mi limito a andare su, finalmente senza pensieri.
Eccomi; c’è il tramonto sulle catene di montagne e si staglia la sagoma di un uomo che aspetta presso un piccolo bivacco, lo chiamo e gli dico che è la cosa più bella che ho visto oggi; finalmente posso stemperare, mi fermo a bere un tè, due chiacchiere e giù, stavolta con la frontale accesa che sono ormai le dieci.
Che dire? giù, giù, giù, prima un ristoro, poi il bosco, le farfalle notturne che danzano attorno al fascio di luce che ho sulla fronte, ruscelli da guadare al buio, un piede in fallo e il rischio appena evitato di cadere in un rivone di cui non vedo assolutamente nulla.
Sorpresa, arrivo a un punto di controllo inatteso, quando ormai speravo di avere ancora 2 km: no, sono ancora 5, e sono le 23,18.
Eh? Che cosa? PREGO?!?
Basta, ne ho piene le balle, sarò scusato per questo, no?
Corro, corro come un ossesso, come un idiota: pesto sui sentieri prima di sassi e poi di terra, le caviglie reggono a meraviglia ed è uno slalom tra gli alberi, che si diradano e improvvisamente è asfalto.
Ribecco un po’ di gente, ma non mi taccio l’obbiettivo che mi sono dato: arrivare sabato, ovvero entro mezzanotte.
Entro in Courmayeur come un matto, evito la gente dello struscio, arrivo agli scaloni e li salto a 4 a 4, rischio le ginocchia ma ormai la molla è scattata e è impossibile ritirarla.
Ecco il ponte, la curva, la salita (porca eva!), il rettilineo, le luci del palasport, il gonfiabile.
23,56 di sabato… ci sono, ormai è già tutto dimenticato, è già tutto alle spalle.
Mi siedo e bevo al volo due birre, stomaco chiuso e testa su Saturno.
Pian piano vado in doccia, mi rivesto, è la una, un’altra birra.
Siamo arrivati in meno di 120 su 180, io sono 36°.
Adesso è finita davvero, finalmente.

 

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