Il 20 giugno il nostro Augusto ha partecipato a Le Grand Trail des Ecrins. Un’altra sua epica impresa che ci racconta con la consueta vivacità. Complimenti Augusto, e grazie per il tuo prezioso contributo anche fotografico.
Esattamente un anno fa al Queyras ebbi il mio unico DNF (did not finish), dopo un paio di mesi sui Pirenei andò bene, e finalmente sabato scorso ho vinto un’altra partita sulle montagne d’oltralpe.
Grand Raid des Ecrins, a 40 minuti da Briancon e un’ora dal Monginevro, 80 km per circa 4600 m di dislivello positivo, 80 iscritti alla lunga, poi una 46 km, una 23 km, una 13 km e infine 1 km per bambini e ragazzi.
I miei figli parteciperanno, una corsa per il paese di Vallouise, vicino a dove abbiamo affittato un appartamento per 3 giorni.
Il venerdì è caldo, facciamo un giro e già temo per il giorno dopo, anche perché sul tracciato ci sono solo 4 ristori, e i francesi sono famosi per l’approccio spartano al trail: qui niente fronzoli, qualcosa da mangiare, acqua, succo d’arancia, un’altimetria che è solo l’unione dei punti di massima e minima altitudine senza altre informazioni su quello che invece si rivelerà un continuo mangia e bevi (detto anche “patì e mai murì”) tranne che nei muri di salite, che si faranno sentire.
E’ sabato, sono le sei di mattina; briefing veloce (allarmante l’accenno ai patous, cioè ai cani maremmani di guardia alle greggi, il consiglio è di rallentare e di fare giri larghi senza dare mai le spalle…) e si parte.
I primi 13 km sono di salita non dura, però non si arriva mai; ma il panorama è qualcosa di magico che ti si apre davanti agli occhi, come quando da bambino andavo in vacanza e dietro una curva appariva improvviso il mare.
Montagne verdi di prati, guglie arroccate a grattare il cielo solcate da lingue di ghiacciai, l’azzurro del cielo a contrappunto e spumoni di nuvole bianche dai contorni nitidi che riparano man mano che le ore avanzano dal sole sempre più caldo.
Non ci sono tratti esposti, e ogni tanto butto via le gambe sui falsopiani in discesa, soprattutto quando entriamo nei boschi, sentieri tutti su single-track e tappeti di aghi di pino a favorire e ammortizzare l’impatto col terreno, davvero l’ideale finché i polmoni reggono.
Adesso le due salite secche, ma, vuoi il cuore o vuoi la testa, oggi sto proprio bene e me le mangio via senza quasi accorgermene, tant’è che con un’ora di anticipo sul previsto mando un messaggio a Silvia per dirle che sto arrivando al secondo ristoro.
Purtroppo non ci vedremo, loro sono a visitare un altro paese; va beh, corro e arrivo, ma non mi fermo.
Proseguo 50 m e entro in volata in un supermercatino: la tipa mi avvisa che ho sbagliato, ma io afferro una lattina di Leffe e le dimostro il contrario.
Torno al ristoro e mi concedo qualche cracker bevendo la mia agognata birra: sono le undici e venti, io sono bello come il sole e mi sento bene come tornado in un autoparcheggio; quindi? Quindi riparto subito verso la parte forse più ostica, una dozzina di km lungo i quali non si sale davvero, e infatti il sentiero è un po’ noioso ma mai banale.
Sembrerà strano, ma davvero questi tratti all’apparenza innocui vanno interpretati passo dopo passo, per dosare le energie ma soprattutto per capire quando e come correre per non farsi pigliare dalla noia e per mantenere un ritmo che non faccia perdere tempo e voglia di passare via.
Ci siamo, un paesino segna l’inizio del tratto peggiore, al 52° km: adesso sono 3 km e 500 m di positivo, poi 8 km e 800 m di positivo, si arriva quasi a 2600 m.
Il primo tratto è duro, ma ormai mi conosco e so benissimo che sono proprio questi picchi in salita che aumentano la mia efficienza e mi divertono, quindi piglio a salire bevendo regolarmente dalla sacca, supero un po’ di gente e arrivo al penultimo ristoro.
Qualche minuto e poi la vetta chiama; dopo poco mi preoccupo e ho la conferma che l’altimetria era proprio tracciata da un bambino di seconda elementare: andiamo in piano e addirittura perdiamo quota, ma qui si doveva salire! E se non si sale, per guadagnare tutti quei metri che pendenza mi aspetta?!
Finisce il bosco, cominciano i pratoni.
Si apre il cuore, gli occhi godono di panorami che restano impressi nella testa e nelle fotografie che scatto man mano che saliamo, le marmotte fischiano a decine, qualche falco vola nel cielo che qui è completamente sgombro e limpido, mentre l’ascesa è implacabile e davvero terribile, il sudore mi fa bruciare gli occhi, le gambe urlano un dolore muto, le mani stringono gli spallacci dello zaino nella ricerca di un equilibrio fasullo, il collo è reclinato a guardare il terreno e ogni tanto duro la fatica di torcerlo verso l’alto a cercare il punto di approdo di questo viaggio, uguale e diverso da tanti altri che ho fatto su tante altre montagne.
Ma questa volta, come ogni singola volta, è differente, e pare che di tanti naufragi (anche di quelli ancora a venire) questo sia il più tremendo; è fatica, è fatica, è fatica, ma bisogna che si vada, e si va.
E si arriva: è la vetta sotto al vento che impazzisce nel barrire alle spalle o in faccia, confuso anche lui nei riverberi non più addomesticati dai rilievi attorno; non ci sono rilievi, sono sul tetto del mondo, attorno solo punti bassi, dietro di me quelli dove ho già lasciato il sudore, davanti quelli su cui, tra breve, ne lascerò altro ancora.
Messaggio a Silvia, con lo stesso spirito impazzito di Tardelli al secondo gol contro la Germania, devo far rifiatare l’emozione prima che diventi quasi furore per l’orgoglio di avercela fatta; ma poi non è così, e quindi giù per i 18 km finali, questi primi su sfasciumi di roccia che zigzagano e mi conducono finalmente su un tratto in piano.
Alt, fermo: sono su asfalto e mi si spegne la luce, su asfalto non riesco a correre, mi trascino finché mi raggiunge un francese che mi tira per il collo e mi costringe a correre con lui.
Grazie, compagno: riesco a stargli dietro e rientriamo nei boschi; abbandonare l’asfalto mi ridà energia, ricomincio a correre veloce, e stavolta sono io a menare le danze e il ritmo della cavalcata finale.
Seguiamo il fiume e compare il paese di arrivo, attraversiamo il ponte, entriamo: ci guardiamo e sorridiamo, rettilineo finale dove Silvia, Luca e Pietro mi aspettano, io e il mio compagno ci prendiamo per mano e tagliamo il traguardo insieme.
Sono 13 ore e un quarto, per me e i miei scarsi standard un tempo pazzesco, 80 partiti, 20 ritirati; e io che finisco in 24° posizione, le gambe a posto e la testa pure.
Mi bevo una birra e torno coi miei alla casa, poi è doccia, divano, pace.
Infine una buona cena con una bottiglia di vino: eh già, domani è il mio compleanno…
E il 12 a Courmayeur, sotto a sua maestà il monte Bianco.