Mi ricordo che, appena entrato nell’avis pavia circa 5 anni fa, non ricordo come ma ho sentito parlare di questo trail, e ai tempi manco sapevo che cosa fosse un trail. Anzi, correvo a malapena le 12 km, rigorosamente in piano.
Ecco, a ripensarci mi viene su tutto l’orgoglio di averla finita, e raccontare 25 ore e mezzo di gara rischia di portare via qualche pagina di racconto; quindi mi contengo.
Arriviamo in corriera a limone in provincia di cuneo il venerdi pomeriggio, ritiro pettorali, briefing di spiegazione, pasta party; poi alle undici a nanna nel sacco a pelo sotto al tendone, sdraiati sulle panche di legno. Dopo 5 ore la sveglia, e alle 5 la partenza. L’emozione immancabilmente si stempera chiacchierando, poi il sole sta per sorgere e lo spettacolo delle prime cime arrossate impedisce di pensare, puoi solo goderti il paesaggio mentre la terra battuta lascia spazio prima all’erba e poi alle rocce. I luoghi sono molto simili ai pirenei, dove ho corso l’anno scorso nelle escursioni in solitaria delle vacanze: le tracce umane sono testimoniate dal sistema di fortini di difesa sparpagliati nell’arco di diversi chilometri. A un certo punto arriviamo dove sul grafico altimetrico c’è un picco: pensavo fosse un errore di scala, invece è proprio un MURO da superare arrampicandosi e aiutandosi con braccia e mani, appendendosi agli spuntoni di roccia. è un tratto breve, ma con una pendenza media superiore al 100%; ovvio che si scherza sbuffando nella ascesa, almeno passa prima. la discesa fa tornare sui prati, e arriva il primo ristoro. si badi che il cro non è un trail, ma appunto un raid: i ristori sono uno ogni 20 km, che qui significano anche 6-7 ore di corsa-cammino.
La costante, criticata da molti, è stata la pochezza di alimenti solidi ma soprattutto l’acqua a temperatura ambiente: caricare il camel bag significava ritrovarsi con acqua a 30°C e doversi idratare (dissetarsi è parola grossa…) con quella. solo bevendo poche gocce ogni 20 minuti sono riuscito a tenere a posto crampi e sali minerali, ma la cosa non dava ovviamente appagamento. qui comincia una salita di circa 10 km, per un dislivello di 1200 m D+, come partire dal mare, arrivare al penice, salire ancora di 200 m, il tutto in 10 km di cammino. per fortuna il paesaggio è molto bello e vario, quindi mi capita anche di correre dove per me è possibile. arriviamo in vetta, tratto meno bello e esposto al sole del mezzogiorno, salitone su un prato, secondo ristoro dei 55 km. fine del tratto più alpino, ma attenzione: la salita non è finita, mi aspettano lunghi tratti di mangia&bevi, insidiosi per le gambe e per la testa. riparto dopo 40 minuti, e con un compagno riusciamo a correre per tutti i 20 km fino al terzo ristoro. tranne, cacchio, su una salita incredibile, che sembra non finire mai, e con una pendenza assassina.
Arriviamo: acqua CALDA lasciata in taniche di plastica nel retro di un furgone. il mio socio vuole lasciare, allora mi invento un briefing seduta stante: ascolta, da qui alla fine ci sono solo due salite molto dure, ma il resto lo possiamo camminare correndo solo nelle discese, siamo qui e porca vacca non possiamo mollare a questo punto. va bene, ci rialziamo e andiamo: single track su erba, prima camminiamo e poi corriamo, le gambe girano, arriviamo a un asfalto e riusciamo a farci offrire due birre da una tipa gentilissima in un bar. nel frattempo è sera, ci sono boschi e accendiamo le frontali, meglio non rischiare. pian piano il buio arriva, riusciamo a correre, ma per me è in arrivo la crisi: complice una strada bianca, dritta e noiosa, cado in un presonno ipnotico, seguo chi mi precede come un automa, non penso non parlo non guardo, cammino soltanto con gli occhi bassi, tengo duro e mi limito a sopravvivere. come un naufrago in mezzo al mare trovo infine la mia zattera: la SALITA.
Questa amica mi costringe a risvegliare l’attenzione, devo badare a non cadere, a non scivolare, a non farmi male, a centellinare le forze e, come un mendicante, a elemosinare zuccheri e endorfine da cuore e testa. sono bellissime le salite di notte: non vedo nulla, non ho percezione delle difficoltà, so solo che c’è un apice e che ci devo arrivare, costi quel che costi. discesa assassina: sono sassi piccoli e sabbietta, tante volte sbatto e una volta cado su una natica; bah, e chi sente ormai il dolore? mi rialzo e arrivo al ristoro notturno. mi siedo davanti al fuoco, bevo acqua FRESCA, mangio qualcosa.
Poi riparto, e mi aspetta l’ultima salita dura: meglio così, la scimmia del sonno si allontana e la difficoltà mi costringe a restare sveglio e vigile per quanto possibile. ci siamo, si scende, ma qui comincia la parte peggiore: vediamo montecarlo, ma il tracciato ci costringe a scendere, poi salire, poi scendere, poi salire, poi scendere, poi salire. sembra non finire mai, spengo la frontale che è già mattina (pensavo di arrivare per le quattro, arriverò alle sei e mezza), finalmente cap d’ail, quasi 2 chilometri di discesa spaccaginocchia su scalinate infinite, ma si arriva al lungomare. eccoci, l’aria è già calda, ma il microclima che ho addosso è una barriera a tutto. corricchio e finalmente taglio il traguardo. sono un finisher, sono stato bravo, ma adesso non è il momento della felicità, adesso è il momento di contare i danni e leccarsi le ferite.
Sciacquo il dolore sotto a una doccia, mi cambio, mi metto seduto e bevo quattro lattine di birra, un toast, un bicchiere di vino. ora la felicità arriva, mi riempie gli spazi svuotati da tante ore sulle gambe, chiamo casa per dire (non era così scontato…) che sono ancora vivo. e che sto pensando alla prossima.
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